
Ci fu in tempo in Sicilia in cui, tra falò e benedizioni di animali, il 17 di gennaio era incontenibile l’entusiasmo con cui si celebrava uno dei santi più venerati di sempre, Sant’Antonio Abate.
In Sicilia, per esempio, il 17 gennaio, giorno dedicato al santo e che segna l’apertura del periodo carnevalesco, era tradizione impartire una benedizione collettiva agli animali, in particolare bestie da soma. Per l’occasione i pastori radunavano i capi di bestiame la mattina della festa sul sagrato delle chiese. Questo rito è scomparso in buona parte delle città o ha perduto oggi alcuni dei connotati più caratteristici della tradizione. Prima gli animali erano benedetti perché, attraverso le loro carni, il latte o la lana, assicuravano un reddito ai proprietari.
Un’altra curiosità? Fin dal Medioevo, Sant’Antonio veniva invocato in Occidente come patrono dei macellai, dei contadini e degli allevatori e come protettore degli animali domestici; questo, forse, perché dal maiale gli antoniani (i seguaci di Antonio) ricavavano il grasso per preparare emollienti da spalmare sulle piaghe.
Come testimonia Giuseppe Pitrè in Feste popolari siciliane:
“Sotto la tutela di questo Santo il popolo ha messo il maiale: e per tutta la città di Palermo, qualche giorno innanzi la festa, si vendono paste dolci in forma di maiale, di grandi e picciole dimensioni. In Acireale non solo questi ma anche i cavalli, gli asini, i muli si parano con fettucce e si menano in chiesa per averli benedetti. Il prete che benedice riceve una elemosina e dà una figurina di Sant’Antonio abate e un panellino; questo si dà a mangiare agli animali, quella si attacca ad una parete della stalla. Là si vendono certe ciambellette di pane, che poi si danno ai bambini; vi son però famiglie e persone che si astengono dal mangiar pane come si fa per S. Lucia e, nella ‘terra del Burgio’ fino al 1793 coloro ch’eran travagliati dal mal di scabbia si limitavano a mangiare cocca“.
Un altro protettorato affidato a S. Antonio è quello del fuoco: il santo viene invocato per scongiurare gli incendi, e il suo nome è legato ad una forma di herpes (nome scientifico herpes zoster che si riattiva nell’organismo in presenza di un indebolimento delle difese immunitarie), noto appunto come “fuoco di Sant’Antonio” o “fuoco sacro”. Si tratta di una fastidiosa patologia che si manifesta sotto forma di eritemi e vescicole ed ha un decorso, in genere, di poche settimane. Tutti coloro che hanno a che fare con il fuoco vengono affidati alla protezione di sant’Antonio, in onore del racconto che lo vedeva recarsi fino all’Inferno per contendersi col demonio le anime dei peccatori.
Il Pitrè, sempre nel suo celebre volume, ci ricorda un adagio celebre in buona parte d’Europa, così come sulla nostra isola, a memoria del gran freddo che storicamente accompagna questo giorno: “Sant’Antoni la gran friddura, San Lorenzu la gran calura: L’unu e l’autre pocu dura” e perciò il bisogno del fuoco: “Sant’Antoni; Pani dintra e bracia fora“.
Ancora più interessante è quanto lo storico riporta relativamente ad alcune usanze in territorio ibleo:
“Una pratica abbastanza ingenua delle ragazze modicane le quali voglia sapere l’età del futuro loro sposo è quella di affacciarsi alla finestra e di vedere il primo che passi. Gli anni di lui significheranno gli anni del marito ch’esse prenderanno. Il giorno di Sant’Antonino è designato a questa pratica come a pratiche simili S. Giovanni Battista”.
Infine, il Pitrè ricorda il significato doppio del “Purcidduzzu di S. Antoni”, che indica una conchiglia che si apprende al collo “de’ bambini travagliati da termini; ed in tutta l’isola l’oniscus di Linneo, insetto che abita nei luoghi umidi, grigio, ovale, co quattoridici piedi”.
Anche a Rosolini era tradizione, scomparsa relativamente da pochi anni, accendere i falò nel giorno di Sant’Antonio. Tra un quartiere e l’altro si realizzavano diverse cataste di legna, raccolte da adulti, ragazzi o donate da qualche contadino di buon cuore. Era un momento di ritrovo per tutto il vicinato che, alle prime luci della sera, si riuniva attorno al fuoco. Non mancava mai la salsiccia di maiale da arrostire e condividere coi presenti. I giovani, i giorni antecedenti la festa, erano impegnati nella raccolta di qualche spicciolo da destinare all’acquisto di petardi e andavano ripetendo la frase che la studiosa Ignazia Iemmolo Portelli riporta nella sua celebre antologia “Cosi ri casa nostra“: “Chi ci runa ppi Sant’Antoniu?“
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Maurizio Piccinetti
E’ una forte emozione stare davanti a un falò. Ci scalda al calore delle fiamme, mentre si mangia, si beve, si parla insieme. L’articolo di Alessandra è molto bello. A lei i miei più grandi complimenti ???