
Non tutti sanno che “U ciuri i maju”, il crisantemo selvatico che domina i campi in primavera, un tempo aveva il valore simbolico dell’odierno diamante…
Nella Sicilia dei nostri avi, mi racconta il prof. Paolo Uccello durante una passeggiata- intervista alla scoperta della Riserva Naturale di Vendicari, “u ciuri i maju” era il mezzo attraverso cui i giovani si scambiavano promesse e accettavano eventuali dichiarazioni d’amore.
Un tempo, si sa, era usanza sposarsi prestissimo, a 15, 16 anni, tanto è vero che in dialetto – mi spiega la mia preziosa guida naturalistica– si soleva dire: “Fimmina a 18 anni o a spusi o a scanni”.
Quando una ragazza in età di matrimonio decideva di metter su famiglia, lanciava un segnale chiaro ai rampanti giovani di paese. Bastava che la stessa raccogliesse il fiore tipico del mese di maggio e lo fissasse dietro l’orecchio, tra i capelli, per manifestare, in maniera silenziosa ma chiara, la propria disponibilità alla sacra unione. Era cioè pronta a compiere il gran passo.
A questo punto se un ragazzo si fosse mostrato interessato all’affaire amoroso, per tutta risposta, si sarebbe premurato di adagiare un fiore della stessa specie davanti alla porta di casa o alla finestra della gentil donzella. Se poi a lei il ragazzo piaceva, la domenica a messa infilava al dito “u nieddu nfilamuri“, ovvero la scabbiosa marittima, un fiore selvatico attorcigliato a ricordare la forma di un anello.
Ai giorni nostri questa usanza sembra quasi un’assurda leggenda metropolitana. Com’era possibile che l’amore trionfasse tra sguardi e petali non possiamo forse pienamente comprenderlo… ma poco importa. L’immagine è di suo così poetica che, “comu fu e comu nun fu”, il corteggiamento tra gesti, simbologia, colori e note profumate, ha dato vita a infinite e romanticissime storie. Non a caso un proverbio antichissimo recita ancor ora: “Ogni fiore è segno d’amore“.
Credits
Ph.cr. Tommaso Latina
Intervista al prof. Paolo Uccello