
“Sembrava bellezza”. E lo è. È il racconto di una bellezza decadente, mai edulcorata, a volte estremizzata. Una bellezza carnale al punto da sentire le dita che affondano, penetrano il corpo, lo graffiano, lo puniscono fino a sventralo psicologicamente, per permettere alla verità (mistificata dalla memoria) di venire a galla. Aprite la botola della coscienza. Ciò che conta non è mai la realtà ma le percezioni vissute sulla nostra pelle.
L’ultimo libro di Teresa Ciabatti si legge d’un fiato. Due pomeriggi di fila sono sufficienti se non si vuole interrompere il flusso di coscienza dei suoi personaggi. Bisogna seguirli – la scrittrice, Livia, Federica, Massimo-, incastrati nella parentesi temporale degli anni Novanta, che, adesso, la scrittrice prova – inaspettatamente e con sofferenza- a chiudere.
La voce narrante è, appunto, quella della scrittrice, alter-ego dell’autrice, così come accade per “La più amata“, romanzo precedente al quale Ciabatti attinge a più riprese anche per questa sua ultima opera. Non dispiace, quindi, azzardare all’ipotesi di un progetto taciuto, collocando “Sembrava bellezza“, edito Mondadori, all’interno di una ipotetica trilogia. Impossibile arrendersi all’idea che la storia finisca. Noi attendiamo che Anita, figlia, risponda.

La trama è articolata ma tradotta con una narrazione apparentemente semplice, che nasconde un esercizio narrativo realmente complesso, in cui si evince chiaramente lo stile modernista dell’autrice. Ciabatti incatena i capoversi uno all’altro, costringendo il lettore a non arrestare la corsa delle parole, con una naturalezza difficile da raggiungere. Un carosello di personaggi si presenta agli occhi della protagonista, scheletri ossuti che improvvisamente escono dall’armadio riappropriandosi della consistenza della carne e dei sospiri. La matassa va sbrogliata. Ecco che cala il sipario sulla carriera brillante della scrittrice (“Col successo ho dovuto allontanare le persone” p.17) che, adesso, fa da contraltare a una vita di luci e ombre, di ansie e paure confessate a una schiera di terapisti che non ha mai fornito la risposta giusta, ma è la scrittrice a detenere la verità (poco importa se questa sia mistificata dalla memoria mendace e selettiva). Lei, con lucido piglio realista, si spoglia non curante delle memomazioni; si pone sotto la gogna degli sguardi altrui, punta l’occhio di bue sul palco desolato della sua coscienza/esistenza.
L’incontro con Federica, migliore amica del liceo, e con la sorella Livia, la più bella e desiderata ai tempi della scuola, è la miccia che accende la storia: è la botola che si spalanca sotto i piedi, aprendo la voragine delle fragilità intime dell’adolescenza, ma anche il pretesto per rivivere i fatti di cronaca che hanno ingrossato la memoria storica collettiva. Qui è chiaro l’omaggio a Emanuela Orlandi che, senza esserci, assume quasi i connotati di un personaggio, portabandiera dei sogni spezzati, dei casi senza risoluzione che ancora attendono giustizia.
Tra ricordi e rimorsi, la scrittrice cerca di rintracciare la causa dei suoi fallimenti in quanto donna, in quanto moglie, in quanto madre, partendo dai traumi irrisolti dell’amore. Prova, indarno, a far pace col mondo, ma soprattuto con se stessa. Non perde l’equilibrio, anche quando potrebbe scivolare sulla schiuma della birra usata da giovane, convinta che avrebbe schiarito i capelli come ammoniaca. Il viaggio nel tempo è un’espiazione, è catarsi, è luce, è rivelazione, ma non è ancora rinconciliazione, perché non basta riavvolgere il nastro. Certi eventi sono oramai stati. Certe privazioni, di cibo, di sentimenti, di parole, hanno ormai segnato lo spirito e rimangono visibili come cicatrici cheloidee su cui non può nessun unguento. Ecco che, con l’espediente narrativo della mise en boîte, da voce a interferenze dall’esterno: a chi privato di amore, ha scelto di privarsi di cibo. Anoressia, tumore al seno, malattie della mente, sono temi che tratta senza provare pietà. Con disincantato distacco descrive sentimenti che, nel corso della vita, hanno reso forse tutti un po’ malati. Affamati: di carezze, contatto, attenzione. Impossibile essere digiuni da tale appetito.
La scrittrice che domanda e si risponde, che parla con se stessa, sembra uscire dal testo quando si rivolge col tono della semi-invettiva al lettore. Mostra un’abilità sopraffine nel fare vedere con gli occhi ciò che semplicemente inventa/racconta. Non un’invettiva la sua, quanto una confessione in attesa di giudizio e senza pentimento. Un atto liberatorio per denudarsi, scarnificarsi, operazione necessaria perché solo spogliandosi dalla pelle ispessita della giovinezza, coperta, maltrattata, derisa, mascherata da maglioni, da trucchi, dalla continua ricerca della perfezione; solo togliendo la maschera imposta dalla società si potrà finalmente raggiungere uno stato di quiete, di effimera libertà, che durerà forse il tempo di uno spettacolo.
Per questo romanzo non ci sono chiaroscuri né bianco e neri: o lo odi o lo ami. Io propendo per la prima via, decisamente. Ancora una volta, il rischio che si corre leggendo Ciabatti è che, una volta chiuso il testo, si sentano le voci interiori della sua scrittura che, applicate alla tua esistenza, diventano sempre più insistenti. L’alter-ergo della scrittrice sadica e disincantata inizia ad appartenerti senza che tu possa capacitarti di come e perché sia riuscita a colpire le tue fragilità. Il romanzo si conclude con un finale che potrebbe essere aperto. Il monologo interiore del lettore, a quel punto, comincia.
Ciabatti è ipnotica e il ritmo sincopato della sua scrittura non può essere capito dall’uomo medio che non ha accumulato sufficienti pesi nel proprio bagaglio a mano. Peccato per il mancato Strega, ma si deve essere un po’ Ciabatti per caprirne profondamente il senso. Di una delicatezza e di una spietatezza encomiabili. Uno scritto che pone l’autrice nell’olimpo delle voci più moderne all’interno del panorama della letteratura italiana contemporanea. Con i suoi romanzi laceranti strizza l’occhio alla scuola modernista, all’Ulisse di Joyce, alla Mrs Dalloway di Woolf, a dialoghi dell’assurdo di matrice beckettiana. È un romanzo potente, punto, e forse il prerequisito per la lettura è aver provato, almeno una volta nella vita, a stare su una botola, sotto il vuoto, cercando ostinatamente di non perdere l’equilibrio. Il problema non è cadere, ma è scoprire quello che troverete dentro la botola.
« A che età capiamo che non possiamo volare? Qual è il momento preciso in cui scopriamo che volare è prerogativa di uccelli e farfalle? »
Applausi scroscianti. Sipario. Sorriso. Silenzio. Adesso datemi un cigno.
Alessandra Brafa